Alessandro D’Avenia: proviamo a inaugurare una scuola nuova, che non faccia scappare

L’insegnante scrittore: «Siamo in un momento storico straordinario: stanno venendo al pettine tutti i nodi di un sistema educativo che non funziona più perché non ha al centro i ragazzi, ma se stesso»

«Il giorno in cui finisce la scuola, noi la ricominciamo. So che sembra folle, ma la verità è che noi proviamo a inaugurare una scuola nuova, dalla quale le persone non vogliono scappare». L’insegnante scrittore Alessandro D’Avenia, da alcuni anni autore della rubrica del lunedì «Ultimo Banco» sul Corriere della Sera, dice di non aver più tempo da sprecare, vorrebbe una rivoluzione in classe. Lo spiegherà domani sera a Torino, a colloquio con la psicologa dello sviluppo Daniela Lucangeli dell’Università di Padova.

Adesso basta con questa scuola?

«Siamo in un momento storico straordinario: stanno venendo al pettine tutti i nodi di un sistema educativo che non funziona più perché non ha al centro i ragazzi, ma se stesso. È sotto gli occhi di tutti. Un sistema inventato dagli uomini che dovrebbe servire a umanizzare la vita, alla prova dei fatti non lo fa più».

In che senso la trova «disumana»?

«Lo è nella misura in cui non si prende cura dell’umano irripetibile che c’è in ogni ragazzo. Ma non può farlo, perché è ormai un sistema in cui prevale la burocrazia e obbliga i maestri ad occuparsi di carte. Precariato, concorsi che promuovono solo il 2% dei candidati: al centro deve invece tornare la scuola come laboratorio di vocazioni».

Come state voi insegnanti?

«Abbiamo da anni un numero impressionante di docenti in “burnout”, lo sfinimento psico-fisico da lavoro. Nel momento in cui vieni trasformato regolarmente in un burocrate che deve occuparsi di tutto tranne che dei ragazzi è chiaro che è inevitabile».

E gli studenti?

«Oggi la scuola è un posto da cui vogliono scappare, non è più di loro interesse per stare al mondo. L’obiettivo è avere la materia sopra. Il livello di delusione non è solo dato dall’abbandono scolastico, ma anche dai numeri della stessa commissione del Miur del 2017 a cui ha partecipato Daniela Lucangeli: il 75% dei 14-15enni dice di provare malessere a scuola».

Lo dice anche la scienza?

«L’apprendimento così com’è contribuisce al malessere dei ragazzi, perché non è rispettoso dello sviluppo cerebrale. Lo dimostrano gli studi di Lucangeli, esperta di neuroscienze e apprendimento, che parla di “obesità informazionale”. Come spiegheremo a Torino, noi immaginiamo invece una scuola in cui la gente stia bene, impari e fiorisca».

Che scuola vorrebbe?

«Una scuola vocazionale in cui si intercettano i talenti, dove l’apprendimento non sia la sua quantificazione. Devo far sì che dopo 13 anni dentro le aule si esca dicendo “so quelli che sono i miei limiti e i miei talenti e voglio costruire questa mia vita in modo coerente con quello che sono e voglio diventare”».

La prima riforma da fare?

«Il modo in cui si fa l’appello alla mattina, tema a cui ho dedicato tutto il mio ultimo libro (L’appello edito da Mondadori, ndr). Se non riservo almeno un momento ad ogni nome, tutto il resto non può funzionare. Dobbiamo ritornare alla scuola delle relazioni. “Scholé” significava tempo libero, non c’erano interrogazioni, ci si dedicava alle cose degne d’amore: il vero, il bello, il buono».

Anche i ragazzi hanno protestato con le occupazioni.

«Per la prima volta ho visto intere sessioni delle occupazioni condivise con presidi e insegnanti, che si sono messi ad ascoltare i ragazzi. Ne sono usciti manifesti con una lunga serie di richieste. Poi però vedo tanta retorica paternalista in chi governa che non si traduce in azione».

Quindi ci vuole una «rivoluzione»?

«Sto ragionando su come fare una rivoluzione dall’interno della scuola, per costruirne una nuova. Non voglio sprecare il mio tempo ad abbattere un sistema che è già finito. Va reinventata, mettendo insieme un po’ di persone che l’hanno a cuore proprio a partire dall’ultimo giorno di scuola».

Ammetterebbe anche il «gender fluid» con i bagni neutri?

«A me sembra “make up”. Il bagno neutro non basta, abbiamo ignorato per anni il tema dei corpi di questi ragazzi. È impensabile che le aule siano rimaste come a fine ‘800, con i ragazzi dietro un banco per 5 o 6 ore. Va ripensato tutto l’ambiente di apprendimento per facilitare le relazioni».

Ma oggi chi sta all’ultimo banco?

«Siamo stati messi all’ultimo banco un po’ tutti: noi insegnanti, i ragazzi, ma anche i genitori. Ci siamo tutti noi che vorremmo fare una scuola diversa, ma soprattutto ci sono i più fragili. Solo nel momento in cui impareremo a prenderci cura di loro, allora tireremo su la scuola».

Un articolo di Chiara Sandrucci 10 06 2022

Data ultima modifica: 13 giugno 2022