LA FRATELLANZA CON LA TERRA

Sono cinquant’anni che le Nazioni Unite hanno scelto di dedicare una giornata all’ambiente il 5 giugno, ma sembra davvero troppo, troppo poco ciò che concretamente riescono a realizzare i governi, le nostre società e noi tutti nel senso di una conversione ecologica sempre più necessaria.

Oltre quaranta anni fa, all’inizio delle nostre ricerche nella Casa-laboratorio di Cenci, scrivevamo:

“Per affrontare gli squilibri ecologici che minacciano il nostro pianeta c’è bisogno di ricostruire una relazione di fratellanza con gli elementi del cosmo. Ma per ritrovare una parentela con il vento, il bosco, la luna e l’acqua che scorre bisogna compiere un viaggio di ricerca dentro di noi che ci consenta di aprire occhi e orecchie e di ampliare il nostro sentire. Le porte della percezione, infatti, sono ostruite fin dalla più tenera età da una relazione con il mondo che passa prevalentemente attraverso canali tecnologici”.

Era il 1980, non esisteva ancora internet e non c’erano i cellulari, ma avevamo intuito che l’esperienza del vivere pienamente il corpo come luogo di conoscenza era sottovalutata se non offesa dalle troppe rigidità della scuola. A Cenci, in quegli anni, sperimentavamo con passione le potenzialità e possibilità che offre il corpo in movimento, il corpo all’erta, la nostra presenza nella natura quando lavoriamo sulla percezione e osiamo entrare nel silenzio.

“Selvatico è ciò che si salva”, ha scritto Leonardo da Vinci, e Nora Giacobini, che dal 1985 era venuta a vivere a Cenci, ci propose con convinzione la saggezza della cultura dei nativi americani. Una cultura che permise a Capo Seattle nel 1854 di scrivere, in una nota lettera al Presidente degli Stati Uniti:

“Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. Dovete ricordarvi, e insegnare ai vostri figli, che i fiumi sono nostri fratelli e dovete d’ora in avanti mostrare per i fiumi la tenerezza che voi mostrate per un fratello.”

Così, in cerca di questa fraternità perduta, proponevamo a ragazze e ragazzi una sorta di teatro degli elementi: azioni in spazi aperti alla ricerca di un incontro con la natura tattile e sensoriale, che fantasticavamo potesse avvicinarsi a ciò che affermava Empedocle venticinque secoli fa scrivendo:

“Conosciamo la terra con la terra e l’acqua con l’acqua, il fuoco con il fuoco e l’etere con l’etere celeste, come l’amore vediamo con l’amore e l’odio con l’odio tremendo. Come il sangue che circola nel cuore così è per gli uomini il pensiero.”

Vedere l’amore con l’amore e l’odio attraverso l’odio è cosa che si comprende bene. Ma cosa vuol dire conoscere la terra con la terra e l’acqua con l’acqua? La strada da percorrere per riallacciare una fraternità perduta passa per una sorta di identificazione? Si tratta di rintracciare una corrispondenza poetica? Ma come si stabilisce un dialogo con chi non ha parole?

L’idea che il pensiero sia come sangue che circola nel cuore rimanda a una centralità del corpo inteso nella sua concreta fisicità, da non perdere se vogliamo accorgerci e sentire la sofferenza della terra.

Alla ricerca del selvatico

Poco dopo aver iniziato la mia esperienza nella scuola di Giove, proposi di dedicare un intero anno, in quinta elementare, alla ricerca del selvatico. Avevamo visto Il ragazzo selvaggio, l’intrigante film girato da François Truffaut nel ’68. Colpiti dalle difficoltà che incontra il dottor Itard interpretato dallo stesso Truffaut, nel tentare di ricondurre alla civiltà e fare da maestro a un bambino vissuto nel bosco dalla nascita, immaginammo di inventare e mettere in scena una storia al contrario.

Nel nostro piccolo film, girato in pellicola in super8, c’era un gruppo di bambine e bambini che provavano piano piano a inselvatichirsi sempre più, fuggendo dalla scuola e dalla civiltà. In questo percorso di scoperta intitolato “viaggio selvaggio”, compiuto tra boschi e campi con grande gioia di tutti, ci eravamo dati un nuovo nome che evocava l’elemento che ciascuno di loro aveva sentito come fratello.

Ecco come Matteo parla del suo vento volante: “Non si muove il vento. È lui il movimento. Muove tutto il corpo immaginario e fa sognare ovunque passa. Lui si ferma, passa sotto a tutto, curva, si ritorce e danza danze a noi sconosciute. Parla un altro linguaggio, molto facile da imparare ma molto difficile da capire. Il vento comunica con tutta la natura. Si allunga, si accorcia, meravigliando tutti del suo teatro”.

Il cavallo di Caravaggio

Caravaggio, trovandosi a dipingere la più narrata delle conversioni – quella in cui Paolo di Tarso cade da cavallo sulla via di Damasco – con l’ardimento che lo contraddistingue, sceglie di non mettere in primo piano il tredicesimo apostolo, ma piuttosto il cavallo che lo aveva scalzato. Il grande cavallo, visto da dietro, occupa quasi tutto lo spazio del dipinto, mentre Paolo, con le spalle a terra e le braccia levate verso l’alto, lo osserviamo che giace con gli occhi chiusi, apprestandosi a guardare il mondo da un altro punto di vista dopo la caduta.

Già, ma dove trovare il cavallo capace di scalzarci e farci accorgere che è necessario e urgente cambiare molte nostre abitudini e comportamenti?

Letteratura, arte e scienza in ogni tempo hanno cercato di modificare il nostro sguardo sul mondo aprendo nuove strade alla conoscenza e credo che, per cercare modi di abitare in modo meno distruttivo il pianeta limitato che ci ospita, dovremmo andare alla ricerca di quel cavallo, di quella leva capace di rovesciare il nostro punto di vista scalfendo tante comode certezze e facendoci rendere conto inequivocabilmente che avanti così non si può andare.

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, quando Alexander Langer cominciò a parlare della necessità di una conversione ecologica, scelse questa espressione perché aveva chiaro che una conversione della produzione, dell’agricoltura e dei trasporti, una conversione dell’abitare, del consumare e del trattare i rifiuti non avrebbe potuto affermarsi in assenza di una contemporanea conversione del nostro pensare e del nostro sentire. Penso dunque che la scuola, che è il luogo primario in cui dovremmo imparare a ragionare sulle conseguenze delle nostre scelte, non possa sottrarsi a questa sfida.

Il problema è che si tratta di imparare a insegnare ciò che ancora non conosciamo, ciò che ancora la nostra società stenta a scegliere di sperimentare. Si tratta allora di trasformare davvero la scuola in un luogo di ricerca aperta, in un luogo di creazione culturale.

Questo scritto è tratto da Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli (Sellerio 2023). Nella fotografia in alto il grande prato fiorito sotto la casa-laboratorio di Cenci.

8 giugno 2023 Comune-info

Data ultima modifica: 9 agosto 2023